Il palazzo Strassoldo-Peteani-Calice

Farra d'Isonzo

Risale al 1728 l’edificazione dello storico palazzo Strassoldo-Peteani-Calice, sede del Municipio di Farra e sito nella piazza principale del paese. Inizialmente voluto da un ramo della famiglia Strassoldo, in sostituzione di una dimora più antica presente a breve distanza e poi rasa al suolo, passò di mano a diversi proprietari.
Tra questi, la contessa Elisabetta Beretta, la quale volle istituire la Pia Casa di Ricovero a favore delle genti del luogo. Successivamente, finito il complesso all’incanto, lo acquisì la famiglia Calice, originaria della Carnia. Il barone de Calice fu anche ambasciatore austriaco a Costantinopoli e qui conobbe un personaggio ambiguo e dalla storia affascinante: Angelo Musmezzi.
Costui, figlio di un napoletano residente a Palmanova, si dedicò sin da giovane a traffici commerciali più o meno leciti con l’Oriente che contribuirono a garantirgli grande fortuna economica.
Soprannominato per la sua eccentricità nel vestire e per la sua spregiudicatezza ‘pirata turco’, è del tutto verosimile che aiutò la famiglia de Calice, appartenente a una nobiltà ormai decaduta, al punto che il egli stesso stesso trascorse gli ultimi anni della sua vita presso il palazzo.
Il palazzo passò successivamente di mano a Raffaele Gentili, che lo cedette nel 1911 all’amministrazione comunale di Farra.

la Chiesa di S. Maria Assunta

la Chiesa di S. Maria Assunta

Farra d'Isonzo

Durante una domenica di festa della primavera del 1742 la chiesa di Santa Maria Assunta fu consacrata da monsignor Ceccotti, della frazione istriana di Pedena, su solenne incarico del veneziano Daniele Dolfin, ultimo patriarca di Aquileia.
Voluto fortemente dal parroco del tempo, don Giuseppe Pollini, l’edificio era già stato ultimato nel 1728, secondo gli stilemi architettonici propri del barocco romano e fu dedicato alla patrona del paese.
Durante la prima guerra mondiale, trovandosi su una linea di tiro incrociato tra i belligeranti, come il resto del paese restò seriamente danneggiato e parte dell’ornamento interno andò perduto
Riedificata nel 1923, la chiesa fu nuovamente consacrata dall’arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia, una volta arricchita con pitture, sculture e stucchi di artisti locali e artigiani del ‘900.


 

la Fara longobarda

la Fara longobarda

Farra d'Isonzo

Nella primavera del 568 d.C., i Longobardi giunsero sulla sponda dell’Isonzo, in prossimità del ponte sito presso la contemporanea località di Mainizza.
L’Impero romano d’Occidente sta conoscendo il suo disfacimento e sta subendo da tempo la pressione di popolazioni barbariche tra cui quella longobarda, discesa dalla Scandinavia e successivamente insediatasi sulle rive del Balaton, non rappresenta che l’ultima in ordine di comparizione.
Seguendo le vie certe lasciate dai romani, questa popolazione guidata dal duca Alboino dapprima raggiunse Emona –l’antica Lubiana- per poi discendere la valle del Frigidus (Vipacco) e, una volta attraversato il grande fiume, in prossimità della vicina zona collinare, fondarono una faramannia, cioè un presidio costituito da un gruppo di famiglie nobili, a difesa della posizione acquisita. Le opere difensive si attestarono sul colle San Michele e sul monte Fortino, probabilmente riutilizzando presidi fortificati romani. La strategicità di questo luogo aveva una duplice valenza: quella determinata dal presidio sul fiume e quella definita dal fatto di essere questo estremo luogo di confine, a difesa del ducato di Cividale.
La vicina Aquileia, che in realtà continuava ad esistere anche dopo la devastazione degli Unni, aveva perduto per sempre qualsiasi centralità strategica.
Il messaggio insito nella dottrina cristiana indusse dapprima regnanti come Agilulfo e Teodolinda ad abiurare all’arianesimo e, successivamente, molti altri longobardi. Tra questi, i dei tre fratelli Erfo, Anto e Marco figli di Pietro e Piltrude, duchi del Friuli che, abbracciata la fede, il 3 maggio 762 si fecero monaci e donarono ai monasteri di Salt di Povoletto e di Sesto al Reghena sostanze e averi, tra cui ‘Fara juxta turionem’, ossia l’originaria faramannia, sita in prossimità di una torre fortificata. Questo rappresenta il primo documento nel quale compare il toponimo che, nel corso dei secoli successivi, di ben poco sarebbe poi mutato.
Passeranno  un paio di secoli da questa data quando Farra sarà nuovamente nominata in un documento ufficiale : nel 967 il castello di Farra, da un altro atto promulgato nella chiesa di S. Severo a Ravenna, passa di proprietà da Annone al patriarca Rodoaldo di Aquileia, per esplicita volontà dell’imperatore Ottone I, re d’Italia.
Nel 1216, infine,  il conte di Gorizia Mainardo II, a seguito della disputa sulla proprietà del castrum con il patriarcato aquileiese, lo fece radere al suolo, assieme al ponte sull’Isonzo che, nell’arco della sua esistenza, aveva già conosciuto diverse demolizioni e successive ricostruzioni.


 

tra Venezia e Impero Ottomano

tra Venezia e Impero Ottomano

Farra d'Isonzo

Circa trent’anni dopo il subentro dei  Veneziani allo Stato Patriarcale nella reggenza delle terre del Friuli cui apparteneva Farra, una nuova minaccia si abbatté su questi territori, questa volta proveniente dai Balcani: i Turchi.
Essendo equipaggiati in modo leggero ed adottando una tecnica di combattimento basata sull’agilità, difficilmente s’arrischiavano a cingere d’assedio le Terre, ossia le città murate. Domenico Malipiero racconta, nei suoi Annali, che le truppe turche fecero oltre ottomila prigionieri tra i civili in un sol mese, incendiando ogni villaggio del contado goriziano, inclusa Farra.
Da qui, la decisione della Repubblica di Venezia d’iniziare i lavori per la costruzione di una linea difensiva fortificata, comprendente la fortezza di Gradisca e i forti di Mainizza e di Fogliano.
La costruzione della fortezza bastionata di Gradisca relegava Farra a una posizione subalterna, perdendo de facto il diritto giurisdizionale sulla città veneta.
Per avere un’idea ancor più precisa della gravità del pericolo rappresentato dal Turco, basti considerare la presenza di un foglio di carta, ripiegato più volte, all’interno del ‘Memorandum Ligny’ del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci: si tratta di due abbozzi di lettera, vergati dal genio, in cui si propongono degli studi sul fiume Isonzo condotti per  i Veneziani. Un sopralluogo forse tenuto segreto, al fine di capire quale tipo di opera fosse da condurre sul fiume, al fine di sbarrare il passo all’invasore ottomano. In un altro passo del Codice Leonardo ipotizzò che il modo più efficace per bloccare il nemico fosse quello di servirsi di una diga mobile, per allagare campagne circostanti e rendere impraticabili le zone al passaggio. Visti gli enormi costi realizzativi, l’idea non fu considerata realizzabile.

la statua di San Giovanni Nepomuceno

Farra d'Isonzo

Lungo la strada che collega  la statale tra Gorizia e Gradisca e la villa della Bellanotte  -che leggenda vuole persa  e rivinta al gioco d’azzardo da un suo antico proprietario, durante una notte memorabile- un piccolo ponte scavalla una roggia che un tempo serviva ad alimentare i mulini presenti sul suo corso.
In prossimità del ponte, protetta da un’edicola, è collocata una statua di San Giovanni Nepomuceno, recante la data del 1742. Si trova in quel punto da dopo la Grande Guerra, quando fu colpita, finendo nella roggia per lungo tempo.
Il santo rappresentato è il protettore della Boemia ed era originario della città ceca di Nepomuk.
Fu fatto assassinare da re Venceslao per aver occultato la confessione della regina Giovanna rea di connivenza col nemico cattolico: al termine di un’indicibile serie di torture, fu fatto annegare nella Moldava.
Dal 1700 la statua del Santo è spesso presente in prossimità dei ponti, è protettore dalle alluvioni, dalle morti accidentali per annegamento e, in generale, di chi lavora sui fiumi.
Interessante è poi soffermarsi sulla natura della roggia: si tratta di un canale artificiale scavato nel 1529 dai genieri della Serenissima per approvvigionar con l’acqua captata dall’Isonzo i fossati delle mura della fortezza di Gradisca, da poco costruita.


 

le gallerie cannoniere di Monte Fortin

le gallerie cannoniere di Monte Fortin

Farra d'Isonzo

Il sistema delle gallerie cannoniere di Monte Fortin site nella frazione di  Villanova di Farra rappresenta un complesso di cavità artificiali realizzato dall’esercito italiano durante la Grande Guerra ed edificato in un punto da sempre strategico per la sua posizione di vedetta sull’attraversamento del fiume Isonzo prima e come naturale anfiteatro di controllo sulla sottostante pianura, poi.
Il Monte Fortin, munito di sistemi di controllo e difesa del territorio probabilmente già da epoca preromana, ha rappresentato anche per le vicissitudini legate alla prima guerra mondiale una postazione da presidiare e fortificare.

E così fu fatto, quando il comando supremo del regio esercito italiano ritenne necessario costruire un ardito complesso di gallerie, al fine di supportare la presa delle alture del Calvario e del San Michele e, successivamente, di Gorizia, nella contrapposizione con le truppe austro-ungariche.
Dopo la sesta Battaglia dell’Isonzo, le difese nemiche furono piegate e la strategicità del punto venne a mancare.
Per un approfondimento, si rimanda a quest’esaustivo articolo.
La visita in autonomia alle gallerie cannoniere non è possibile, se non previ accordi con la proprietà [info contatto].


 

Massimino il Trace: storia di un Imperatore e del suo rapporto col Friuli

Massimino il Trace: storia di un Imperatore e del suo rapporto col Friuli

Farra d'Isonzo meno nuove

Personalità e gesta del primo imperatore barbaro

I cinquant’anni tra la morte dell’imperatore Alessandro Severo (235 d.C.) e l’avvento al trono di Diocleziano (285 d.C.) furono caratterizzati da una marcata anarchia militare, quando l’Impero romano rimase in balia degli eserciti che proclamavano autonomamente imperatore il proprio comandante, confidando di ottenere privilegi (come avanzamenti di carriera, assegnazione di terre e denaro), da invasioni barbariche che ponevano sotto pressione le zone di confine e da un certo livello di crisi interna, di connotazione sia economica, sia morale.
Alessandro, secondo quanto narra lo storico Erodiano, fu ucciso probabilmente il 19 marzo del 235 , presso la fortezza legionaria di Mogonaticum corrisponde all’odierna città tedesca di Magonza, in un ammutinamento di uomini guidati da Massimino, un ufficiale della Tracia, regione storica grossomodo corrispondente alla Bulgaria, al sud est della Grecia e dalla parte europea della Turchia.
Il malcontento della classe militare alla base di quest’atto è da ricondursi più all’inclinazione di Alessandro Severo a favorire l’aristocrazia senatoria a scapito delle gerarchie dell’esercito e dei finanziamenti allo stesso, piuttosto che al carattere dell’imperatore, connotato non di certo da tratti di decisionismo e risolutezza.
Dopo l’assassinio di questi, l’ultimo della dinastia dei Severi, fu proprio Massimino a esser proclamato imperatore dalle proprie truppe: fu il primo imperatore barbaro.
Per capirne meglio la figura e l’intima connessione di questo protagonista dell’antichità con il territorio del Friuli Venezia Giulia, ripercorriamone la vita e il suo particolarissimo cursus honorum.

Massimino Pio il Trace
sesterzio recante l’effigie di Massimino (235-238 d.C.)

Gaius Iulius Verus Maximinus, nacque approssimativamente nel 173 d.C. in Tracia, da una famiglia di pastori.
Viene descritto come un personaggio di statura estremamente alta -le fonti riportano che  alla sua morte lo scheletro misurava otto piedi e mezzo, pari a due metri e quaranta- con lineamenti rozzi e sguardo poco vivace, ma con forza fisica enorme tale da compiere gesta fuori dal comune. Una prestanza supportata da un carattere fiero e risoluto: si narra che fosse in grado di muovere da solo un carro solamente a forza di braccia, o di frantumare pietre di tufo a mani nude.
Una volta acclamato imperatore, concesse donativi ai soldati e poté difendersi dalle congiure di Magno, consolare e patrizio, e di Quartino acclamato imperatore dai soldati orientali Osroeni.
La sua elezione fu riconosciuta dal senato. Verso la fine del 235 Massimino si aggregò, col titolo di Cesare, il figlio Massimo.
Massimino comprese ben presto che il suo governo doveva assicurare a Roma la sicurezza dei confini dell’Impero; combatté e respinse i Germani conducendo anche nel loro paese una guerra di sterminio; guerreggiò contro i Sarmati e contro i Daci, ristabilendo il limes germanico.

limes germanico | licenza Creative Commons

La guerra ai confini produsse il suo allontanamento dalla direzione degli affari interni e la sua assenza da Roma ove, negli anni del suo regno (235-38), non comparve mai.
Egli però volle consumare tutte le vendette che gli covavano nell’animo contro le persone dell’ordine senatorio e della borghesia dell’impero, escludendo dal Consiglio di Stato e dal suo seguito i personaggi illustri di cui Alessandro si era circondato e facendone trucidare molti, attuando confische, istituendo processi per i più singolari motivi.
Anche la tradizione cristiana rimprovera a Massimino di aver perseguitato i cristiani, ma si trattò di provvedimento limitato sia riguardo al numero, sia riguardo allo spazio e al tempo.
Questo regime gli alienò il palcet delle classi colte e suscitò la reazione senatoria, per cui egli  si trovò a lottare contro l’insurrezione delle province e contro le competizioni dei rivali.
Dopo la morte dei due Gordiani, che avevano guidato una rivolta contro il potere imperiale di Massimino il Trace in Africa, i senatori romani decisero di continuare la resistenza eleggendo co-imperatori Pupieno e Balbino. Tuttavia, una fazione a Roma preferiva il nipote di Gordiano I, Gordiano III, e ciò fu causa duri combattimenti nelle strade della città. Balbino e Pupieno alla fine accettarono di proclamare Gordiano III come Cesare. Questo avvenne nel maggio del 238. Il senato approfittò della rivolta per porre al bando Massimino, proclamandolo nemico pubblico.
In Africa i ribelli furono battuti dal legato di Massimino, il quale si avviò dalla Pannonia verso l’Italia per vendicarsi del Senato.

Arrivo dell’imperatore nell’attuale Friuli

Nella sua marcia di avvicinamento ad Aquielia, l’esercito di Massimino attraversò le Alpi e si mosse verso la pianura friulana, con una formazione atta a sopportare anche eventuali, inaspettati assalti. L’imperatore marciava nella retroguardia, mentre i fianchi erano difesi da arcieri e cavalieri. Era presente anche un consistente numero di ausiliari germani, che furono posti all’avanguardia per sopportare gli eventuale assalti iniziali del nemico. Un corpo, quello degli ausiliari germani, connotato da grande valenza in campo ma da una certa velleità, diciamo, vocazionale.
Arrivato a Emona, l’odierna Lubiana, Massimino trovò i sui abitanti asserragliati entro il perimetro delle mura e i dintorni spogli di ogni genere alimentare. Dopo una notte passata in prossimità di questo baluardo, che non rappresentava un obiettivo, riprese la marcia verso Aquileia.
L’avanzata dell’esercito incontrò una serie di ostacoli.
In particolare, giunto presso il grande ponte sul fiume Isonzo, ubicato a una distanza di circa sedici miglia dalla città di Aquileia  in prossimità dell’odierna località di Mainizza di Farra d’Isonzo, trovò che la piena delle acque aveva reso impossibile il guado e che il ponte era stato preventivamente demolito.

Pons Sonti oggi

Questa situazione di stallo indubbiamente favorì le difese aquileiesi, che ebbero il tempo per organizzarsi ulteriormente e nel migliore dei modi.
Erodiano ci fa pervenire che alcuni soldati germanici, non avvedutisi della reale impetuosità della corrente del fiume, tentarono di attraversarlo a cavallo, trovando così la morte.
A questo punto, il genio militare del suo esercito indicò di utilizzare le botti vinarie vuote che si potevano reperire nella campagna circostante per costruire un precaria piattaforma fluttuante zavorrata, sulla quale l’esercito avrebbe potuto attraversare il fiume: una soluzione rapida e pragmatica al problema.

L’assedio di Aquileia e la fine

Giunto ad Aquileia, egli trovò però una strenua difesa condotta con successo dai senatori Rutilio Pudente Crispino e Tullio Menofilo, che disponevano d’una guarnigione ben equipaggiata e che potevano contare sul supporto delle poderose mura della città.
Nonostante il primo attacco alle mura fosse stato respinto, invece di scendere rapidamente lungo la penisola per raggiungere la capitale, Massimino decise di insistere con l’assedio della città fortificata: un errore strategico che gli costerà molto caro.
Difatti fu affidata all’imperatore Pupieno l’organizzazione della difesa di Aquileia, che diresse da Ravenna, mentre Massimino non riusciva ad avere ragione della città assediata, in quanto estremamente ben organizzata anche sotto il profilo dell’approvvigionamento di viveri e di acqua, garantita dai numerosi pozzi presenti.
Ciò permise ai suoi avversari di organizzarsi, e Pupieno, a cui era stata affidata la conduzione della guerra, raggiunse Ravenna da cui diresse la difesa di Aquileia.
Anche se il rapporto di forze era ancora a vantaggio di Massimino, l’assedio si protrasse senza alcun risultato, giacché gli abitanti di Aquileia avevano fatto abbondanti scorte di viveri e disponevano di numerosi pozzi d’acqua all’interno della città.
Nonostante un segnale di cedimento della popolazione della città ad arrendersi, successivamente rientrato, non trasse detrimento lo spirito di resistenza degli Aquileiensi, grazie soprattutto all’incoraggiamento del senatore Crispino.
La battaglia fu aspra e sanguinaria: sotto la direzione dell’usurpatore e del figlio Gaio Giulio Vero Massimo, l’esercito del Trace, molto numeroso e ottimamente equipaggiato, nulla poté contro la resistenza aquileiese, che si avvalse anche dei più moderni e cruenti ritrovati bellici. Tra questi, pietre incendiarie ricoperte di pece e olio d’oliva, liquido infuocato composto da bitume e zolfo da riversarsi giù dalle mura e frecce infuocate.
Inoltre, la penuria di cibo indotta dal taglio degli approvvigionamenti operato da Pupieno, le condizioni atmosferiche ostili e la rigida disciplina imposta alle sue truppe dall’imperatore rinfocolarono il forte malcontento già endemico nelle truppe, alla base della successiva rivolta.
I soldati, che avevano proclamato Massimino imperatore qualche anno prima, al culmine della sommossa intestina lo deposero e lo assassinarono assieme al figlio, nella loro tenda. Alla fine ingloriosa seguì l’oltraggio delle spoglie: le loro teste mozzate furono infilate su delle picche e esposte in macabra processione agli Aquileiesi, mentre i loro corpi furono esposti a cani e uccelli, che ne finalizzarono lo scempio.
Le teste furono fatte recapitare a Marco Pupieno, che ricompensò le truppe in solido.
L’impero di Massimino durò in tutto tre anni; il Senato condannò Massimino alla damnatio memorie e fece cancellare il suo nome da monumenti ed epigrafi.


Massimino il Trace; pons Sonti; Aquileia
Aquileia | Massimino il Trace?

La testa appartenente a una statua bronzea raffigurante un notabile  in età matura è stata rinvenuta, divelta e ammaccata, sul fondo di un pozzo in prossimità del Foro aquileiese.
Tradizionalmente attribuita a Massimino, la posizione del suo ritrovamento e le evidenti pieghe nel metallo, a testimonianza di un distacco operato con violenza, ben si sposerebbero alla cancellazione coatta del ricordo di questo imperatore che tentò di raggiungere Roma e il comando del modo conosciuto.

la botte di Villa della Punta

al via il progetto di valorizzazione dei reperti archeologici di Farra d’Isonzo

al via il progetto di valorizzazione dei reperti archeologici di Farra d’Isonzo

Farra d'Isonzo percorsi di pietra

S’inaugura a Borgo Colmello di Farra d’Isonzo l’articolato iter che, in stretta collaborazione con la locale Amministrazione Comunale, intende portare alla definizione del primo nucleo di un museo archeologico dedicato alla collezione di reperti riferibili al complesso del ponte romano sull’Isonzo in località Mainizza, alla stazione itineraria e alla prossima necropoli.
Nel corso dei mesi a venire, le varie fasi di ricerca, indagine e recupero dei beni da musealizzare saranno illustrate parallelamente alla storia dei luoghi, delle vicissitudini e dei personaggi noti e meno noti che, nel corso del tempo, si son posti a vario titolo in relazione con questo territorio.