l’imbarcazione romana di Monfalcone
Nel giugno del 1972, la benna di una pala meccanica stava compiendo dei trinceramenti nell’ambito dello scavo della villa romana della Punta, a breve distanza dalle Terme Romane, quando intercettò alcune tavole di legno squadrate e dotate di singolari incastri: si trattava dell’inizio di un’eccezionale scoperta.
Il manufatto ligneo che venne alla luce nel settembre successivo, risultava parte dell’opera viva di un’imbarcazione lunga quasi undici metri che i limi palustri avevano occultato col tempo, proteggendola dagli insulti della macerazione del legno.
I dati raccolti raccontarono da subito di un’imbarcazione di probabile pertinenza della villa insulare adiacente, forse impiegata per coprire la breve distanza che la separava dalla linea di costa, sensibilmente più arretrata rispetto a quella attuale, come attestato da numerose testimonianze di ville e insediamenti produttivi noti da tempo.
La sua vera destinazione d’uso, però, non fu suggerita da alcun indizio che potesse far riferimento a un carico o altro: la zona di rinvenimento del relitto era troppo esposta ai capricci di vento e mareggiate per non disperderne eventuali tracce.
Il lavoro di recupero del relitto si rivelò molto impegnativo, poiché la giacitura dello stesso era in limi continuamente allagati dalle acque di falda, che imposero il continuato utilizzo di pompe idrovore. Si decise dunque di procedere liberando il relitto dai limi e, nel frattempo, puntellando dei supporti lignei giustapposti alla sua base, di modo da non danneggiarne la forma: l’obiettivo chiaro da subito fu il suo recupero unitario, senza prevedere il disassemblaggio di componente alcuna.
Una volta imbragata e caricata da una gru, la barca fu trasportata su strada alla volta di Aquileia, ove ad attenderla si profilava un lungo e paziente intervento conservativo.
Aquileia fu scelta come sede di musealizzazione del relitto per accostare quest’imbarcazione originale al contesto della grande portualità rappresentato dall’originale vocazione della città romana.
Dopo un periodo di consultazioni tra illustri esperti nel campo della conservazione e del restauro, si decise che il metodo ideale per stabilizzare la degradazione organica del legno e garantire al relitto una sopravvivenza al di fuori da quell’ambiente che l’aveva preservata per tanti secoli, sarebbe stato quello che prevedeva l’utilizzo del glicole polietilenico.
Un polimero sintetico utilizzato per la prima volta nel lavoro di recupero del galeone svedese Vasa e qui utilizzato per impregnare i legni già offesi da attacchi fungini e batterici.
Difatti il rovere della chiglia e del paramezzale, lo ordinate in noce e il fasciame in abete avevano già iniziato a degradarsi e solo un’immersione prolungata in una soluzione di questo polimero ne avrebbe permesso la stabilizzazione.
Tale intervento si protrasse per un lungo arco temporale: per ben sette anni l’imbarcazione fu trattata con acqua dolce, continuamente ricambiata, mentre per altri due con una miscela riscaldata a 60°C e a concentrazione via via crescente di glicole polietilenico, che sostituì per osmosi l’acqua presente nel legname, saturandolo.
Dallo studio della tecnologia costruttiva impiegata per realizzare l’imbarcazione, si notò la sua realizzazione a fasciame portante e si confermò la sua natura da trasporto, oltre alla sua proporzione costruttiva, rispondente appieno alla imbarcazione d’età greco-romana.
E pure la disposizione ‘a paro’ del fasciame, disposto cioè taglio contro taglio, rispondeva ai canoni dell’ingegneria navale di quell’epoca.
Un sistema di assemblaggio del fasciame mediante tenoni -linguette che s’inseriscono in sedi dedicate, dette mortase e ivi bloccate da perni in legno- permetteva questo particolare assemblaggio ‘a paro’ del fasciame.
L’imbarcazione fu sottoposta durante la sua vita operativa ad almeno un paio di restauri, come testimoniato anche dal numero di chiodi rinvenuti tra lo scarsissimo materiale di bordo.
Degni di nota, infine, un segno graffitato su un madiere di prua, recante un XV e un altro numero, il IV, impresso probabilmente a fuoco in una componente del fasciame: due segni grafici d’incerta interpretazione vista la mancanza di relazione con il numero degli elementi lignei di quest’imbarcazione dalla fascinosa storia, che un tempo solcò la placida marina del lacus Timavi, facendo la spola tra le insulae costiere e un contesto abitativo e produttivo connotato da mirabili tratti di contemporaneità.
–>Qui, la galleria fotografica a cura di Flavio Snidero