la statua lignea di Sant’Antonio Abate, a Monfalcone
L’iconografia su Sant’Antonio Abate (Coma-Qumans [Egitto], 251 – deserto della Tebaide, 17 gennaio 357) ci riporta il mistico egiziano -considerato iniziatore del monachesimo cristiano e primo degli Abati- in compagnia di un maiale, recante al collo un campanellino. E la ragione di questa presenza animale è presto spiegata.
Nell’anno 1070, Guigues Disdier e Jocelyn Châteauneuf, originari dell’antica provincia francese del Delfinato, tradussero da Costantinopoli le reliquie di Sant’Antonio sino al villaggio francese di La Motte-au-Bois.
Le reliquie rappresentavano rimedio e balsamo contro il cosiddetto fuoco sacro o male degli ardenti, detto anche ergotismo, dal nome di un fungo parassita delle graminacee. In particolare, il pane fatto con la segale contaminata dal fungo portava all’intossicazione di chi lo assumeva, cagionando sia spasmi di natura compulsiva e allucinatoria, sia veri e propri effetti di cancrena delle estremità.
Si trattava dunque di un male terribile, del quale alcuni sintomi correlati potevano essere assimilati a quelli dell’herpes zoster (da qui, la denominazione di fuoco di Sant’Antonio, attribuita comunemente alla nota infezione virale).
In nord Europa, dove il parassita fungino era molto diffuso, si contraeva spesso la malattia, veicolata dal pane fatto con la segale.
Man mano che i pellegrini in cerca di sollievo dalla malattia si dirigevano verso i luoghi di culto dedicati al Santo, nel sud dell’Europa, si nutrivano sempre più spesso di pane prodotto con il grano, godendo di un progressivo beneficio, ricondotto al potere guaritore delle reliquie.
Il nobile Guigues de Didier diede disposizione di edificare, nel villaggio francese di La Motte, una chiesa che potesse accogliere queste sacre reliquie, tutelate dai benedettini dell’abbazia di Montmajour.
Tali monaci, nel 1088, furono incaricati dell’assistenza religiosa dei pellegrini e, parallelamente, fu fondata una confraternita per fornire assistenza fisica ai tormenti della malattia. Tale confraternita mutò poi nell’Ordine dei Canonici Antoniniani.
Per diretta concessione del Papa, a tale Ordine fu permesso di allevare maiali, con il cui grasso si lenivano le stimmate dei malati colpiti fuoco di Sant’Antonio.
Maiali allo stato brado, che davano segnale della propria presenza grazie alla campanella che portavano al collo.
Sull’antica topografia locale, in prossimità delle Terme Romane di Monfalcone, un edificio sacro d’epoca seicentesca di pianta rettangolare e di modeste dimensioni risulta sovente indicato come S. Antonio dei Bagni, eretto in prossimità di uno dei due antichi isolotti che delimitavano la laguna litoranea del lacus Timavi dal mare aperto.
Il culto del Santo è probabilmente da attribuire alla necessità delle genti del luogo di benedire il bestiame -fonte di sostentamento primaria- per scongiurare malattie ed epidemie.
Difatti, ogni 17 gennaio, in corrispondenza della festa di Sant’Antonio Abate, gli abitanti del circondario monfalconese si recavano in processione votiva a questa chiesetta, portandosi appresso gli animali.
In quest’edificio vi erano tre altari, come riportato nella documentazione riguardante la visita patriarcale del 1660, di cui il principale era occupato dalla statua del Santo.
Dopo alterne vicende, l’edificio fu bombardato nel 1917 e quasi raso al suolo: la statua lignea del Santo fu così trasferita a Monfalcone e, attorno alla metà degli anni trenta, restaurata pazientemente da Attilio Dessabo. Oggi è possibile ammirarla presso la nuova chiesa del SS.Redentore, restituita all’antico splendore da un ulteriore e recente intervento conservativo.
Il 17 gennaio 2016 è stata benedetta, presso le Terme di Monfalcone, la nuova edicola dedicata al Santo: un’iniziativa di grande importanza simbolica come cenno di forte continuità con la storia locale e la tradizione.
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