E veniamo dunque al ponte di Farra.
Come abbiamo visto nel corso del nostro “racconto a puntate”, gli antichi itinerari stradali e la Tabula Peutingeriana segnalano, lungo la via per Emona a circa a 20 km da Aquileia, una stazione denominata Ponte Sonti.
Anche se non avessimo altre fonti antiche, testimonianze di epoche più recenti o evidenze archeologiche a confermarlo, già il nome della località sarebbe sufficiente a farci sapere che in quel punto del territorio in epoca romana sorgeva un ponte, edificato per consentire alla strada che conduceva alle regioni orientali dell’Impero di superare il fiume Isonzo nel suo tratto più settentrionale.
I dati archeologici ad oggi disponibili ci suggeriscono che intorno a questo punto strategico oggi presso la chiesa della Mainizza – in età romana esistessero, oltre alle strutture della stazione di sosta (mansio), un’area sacra al fiume divinizzato e almeno una necropoli monumentale forse legata a un piccolo abitato.
Osservazioni svolte a partire dalla metà del 1700 sui resti del ponte, allora ancora conservati e visibili “nei pressi di Gradisca”, rinvenimenti casuali e ricerche condotte dagli inizi del Novecento su quanto emergeva durante periodi di magra del fiume hanno portato a delle ipotesi ricostruttive dell’eccezionale manufatto, basate anche su quanto ricordato dalle fonti antiche.
Il ponte, lungo almeno 200 m, era costituito da 12 arcate, ciascuna larga 12 m, ed era realizzato in blocchi di arenaria.
Nel corso dei decenni vennero recuperati nell’area numerosi blocchi di pietra pertinente all’alzato: tra questi, alcuni elementi di monumenti funerari in calcare riutilizzati nella struttura (quattro di questi li potete osservare nella mostra “Percorsi di pietra”).
Indagini archeologiche più recenti (2010-2011) hanno messo in luce una delle basi dei piloni del ponte caratterizzata, nella parte inferiore, da un sistema di pali in legno conficcati intorno alla struttura. Analisi dendrocronologiche indicano che il legno utilizzato era quello di quercia. Inoltre la datazione radiocarbonica (C14) colloca l’utilizzo dei pali tra la fine del I secolo e gli inizi del II secolo d.C.
Dal momento che la strada, come abbiamo precedentemente ricordato, esisteva già alla fine del I secolo a.C. ed era stata molto probabilmente potenziata a supporto delle operazioni militari condotte da Ottaviano tra il 35 e il 33 a.C., è probabile che un primo ponte, forse realizzato in legno, sia stato sostituito nella prima età imperiale da un’opera in pietra che corrisponde all’imponente manufatto descritto dallo storico Erodiano (170-250 d.C.) distrutto nel 238 d.C.
Sulla base delle evidenze disponibili è possibile ipotizzare che il ponte fu poi oggetto di un rifacimento nel III secolo d.C.
Per questo intervento furono impiegate lapidi, decorate e iscritte, provenienti da una vicina necropoli in uso nei due secoli precedenti e ormai dismessa.
Costruire un ponte è stato, per chi nel nostro passato ha avuto per primo questa brillante idea, un atto di vera e propria sfida alla natura e agli ostacoli da questa contrapposti alla volontà di spostamento degli esseri umani.
Oggi come allora questa tipologia di manufatti riveste anche un forte significato simbolico: unisce e divide, è sospeso ma al tempo stesso è radicato al suolo, con sfrontatezza permette agli uomini di oltrepassare l’acqua del fiume, elemento sacro in molte culture del passato.
Forse è per questo motivo che nei pressi del ponte della Mainizza si trovava un’area sacra dedicata all’Isonzo in forma di divinità, il dio Aesontius… era necessario tenersi buono il dio e farsi perdonare per l’atto sacrilego!
Non sappiamo molto dei ponti più antichi, ponti sospesi realizzati con fibre vegetali, che erano certamente utilizzati in regioni extraeuropee, nel Sud Est Asiatico, nel Sud America e nell’Africa Equatoriale, o dei primi esemplari in legno d’epoca romana come il ponte Sublicio che era già in uso nel VII secolo a.C.
Le fonti antiche ci raccontano ad esempio di ponti in legno come quello fatto costruire da Cesare sul Reno nel 55 a.C e descritto nel De Bello Gallico.
Di certo i ponti “ad arco” in muratura e poi in pietra dalla metà del III secolo a.C. in poi ci illustrano la straordinaria abilità degli ingegneri romani, acquisita dagli Etruschi, nella progettazione e realizzazione di opere considerate “sacre”, al punto che la massima carica a carattere giuridico-sacerdotale romana, appunto il Pontifex, traeva il suo nome dalle figure istituzionali che in origine avevano curato l’edificazione dei primi ponti sul Tevere.
Con la grande rete delle strade consolari numerosi ponti ad arco a tutto sesto furono costruiti per permettere alle truppe militari ma anche ai traffici commerciali di superare ostacoli come fiumi o valli o terreni impervi. Ma come si costruiva un ponte in età romana?…
In copertina, la foto del ponte romano del secondo secolo sul fiume Carapelle (Foggia), preservatosi sin ai nostri giorni.
Le immagini sottostanti riportano invece la situazione contemporanea del ponte romano di Ceggia (Venezia), lungo la via Annia.
Di quest’opera, riemersa dalle campagne in seguito a scavi del ’49, si notano in particolare le basi dei piloni di profilo cuneiforme, scolpite nell’arenaria e poggianti su palizzate lignee, conformati per fronteggiare al meglio l’impeto della corrente e minimizzare la creazione di vortici al suo passaggio, garantendo robustezza e stabilità al manufatto.
Una situazione simile a quella esistente in prossimità di San Polo di Monfalcone, presso Ronchi, ove un ramo dell’Isonzo veniva oltrepassato da un ponte di cui ancora oggi esistono alcune testimonianze ➔ Ponte di Ronchi dei Legionari.
Abbiamo parlato delle strade romane e in particolare di quella che passava nel territorio di Farra, proveniente da Aquileia e diretta all’odierna Lubiana. Ma come si viaggiava su queste antiche strade e, nel caso della via Aquileia-Emona, che merci transitavano nell’una e nell’altra direzione?
Lungo i percorsi extraurbani ci si poteva spostare naturalmente a piedi o a dorso di cavallo, mulo o asino oppure utilizzando mezzi a trazione animale, come calessi o carretti.
Le fonti letterarie antiche e le raffigurazioni artistiche ci illustrano una grande varietà di tipologie di veicoli in uso, varietà legata al numero di persone trasportate, alla lunghezza del percorso e al servizio che il mezzo svolgeva.
Per molti di questi mezzi, usati per tutta l’età romana, a due o quattro ruote, si ipotizza una derivazione da forme prodotte ad esempio nelle Gallie come il cisium e l’essedum, vetture con cocchiere, o come il carpentum, veicolo di rappresentanza di origine etrusca, carro coperto a due ruote, poi trasformato in un mezzo a quattro ruote per essere usato anche per il trasporto passeggeri e per le merci. In ambito militare il currus a quattro ruote, a otto o dieci raggi, era il mezzo più utilizzato.
Per quanto riguarda le merci che venivano trasportate lungo la strada Aquileia-Emona, sappiamo da Strabone, lo storico greco vissuto tra la seconda metà del I secolo a.C. e il primo quarto del I secolo d.C, che Aquileia, la capitale delle X Regio, era il centro di distribuzione di prodotti di provenienza mediterranea molto ricercati dai mercanti dell’Illiria, come il vino e l’olio, nonché un centro di arrivo, lungo la medesima direttrice, di bestiame, pelli e schiavi. Carri pieni di questi beni giungevano all’emporio di Nauporto e da lì forse le merci continuavano il loro cammino fino a Emona ma per via fluviale.
La strada di epoca romana che superava l’ostacolo costituito dal fiume Isonzo grazie al ponte della Mainizza era un’importante arteria stradale che partiva da Aquileia per arrivare all’odierna Lubiana (Emona).
Potenziato già in epoca augustea in occasione della creazione della colonia Iulia Emona, il percorso metteva dunque in comunicazione l’Italia con i territori illirico-danubiani e molto probabilmente ricalcava un tracciato viario più antico, la cosiddetta “via dell’ambra”, lungo la quale questo prezioso materiale arrivava dal Baltico all’Italia settentrionale.
Di questa strada che copriva 77 miglia (circa 114 km) ci parlano le fonti storiche ma anche testimonianze speciali come alcuni itinerari antichi, come l’Itinerarium Antonini e l’Itinerarium Burdigalense; il percorso, con indicazione delle principali tappe di sosta, è anche indicato nella Tabula Peutingeriana, copia medievale di una vera e propria mappa stradale di epoca romana.
Confrontando le informazioni offerte da questi itinerari è possibile stabilire che da Aquileia la strada si dirigeva verso nordest e, costeggiando la sponda destra dell’Isonzo, all’undicesimo miglio arrivava alla mutatio Ad Undecimum, prima stazione posta in corrispondenza di Gradisca. La tappa successiva era Pons Sonti, presso la località Mainizza, punto strategico di attraversamento del fiume sul grande ponte di cui parliamo nella mostra. Da qui la via percorreva la valle del Vipacco fino alla tappa di Fluvio Frigido, (Ajdovščina/Aidussina), e oltrepassava le Alpi Giulie tramite il valico di Piro (ad Pirum) a 867 m; scendeva quindi a Longatico (Logatec), per raggiungere Emona passando per il centro mercantile di Nauporto (Vrnika).
Questa strada fu un fondamentale mezzo di penetrazione, in Italia, dai territori illirici e danubiani che ebbero un ruolo centrale nelle politiche militari del periodo tardoantico.
Ora torniamo alla strada di cui parliamo nella mostra, ossia quella che da Aquileia portava a Emona e che transitava sull’Isonzo grazie al ponte della Mainizza: alcuni tratti di questa via, con massicciata in conglomerato di ghiaia e rivestimento in lastre di pietra, sono stati scoperti, già dalla fine dell’Ottocento, nei pressi di Gradisca e di Villesse. Ecco che l’archeologia ci aiuta a capire come erano fatte le strade in età romana!
Quelle più antiche erano state costruite in modo molto diverso dalle strade che avrebbero poi consentito la grande espansione di Roma nel mondo allora conosciuto. I vecchi tracciati con fondo in terra battuta e ghiaia che da Roma portavano ai centri del Lazio erano condizionati dall’andamento naturale del terreno: le strade erano quindi più tortuose e irregolari, mentre verso la fine del IV secolo a.C. nacque la vera e propria ingegneria stradale: ne è l’esempio più antico e noto la Regina Viarum, la via Appia [foto di copertina].
Per le strade di lunga percorrenza e di maggior importanza vennero dunque utilizzate nuove tecniche che prevedevano la definizione di grandi tracciati rettilinei e delle infrastrutture ad essi collegati (ponti, viadotti, acquedotti, trafori…).
Ma come veniva realizzata una strada lastricata? Prima di tutto ne venivano delimitati i margini; una volta scavata la carreggiata, si stendevano strati sovrapposti di materiali: una base (statumen), ossia pietre legate da cemento, al di sopra della quale veniva gettato del conglomerato di pietra tonda e successivamente ghiaia grossolana pressata: infine veniva stesa la pavimentazione vera e propria in blocchi di basalto o lastre squadrate. Dei basoli laterali in fila lungo i margini contenevano la pavimentazione, che al centro risultava leggermente più alta(a “schiena d’asino” diremmo oggi) per far defluire le acque ai lati della strada. Marciapiedi in terra battuta costeggiavano il tratto viario, e pietre miliari poste a distanze regolari informavano sulla distanza già percorsa dalla città di partenza…
Non esistevano solo le strade lastricate: altri tracciati potevano essere caratterizzati dal fondo in semplice terra battuta o ricoperto di ghiaia (via glareata).
I cinquant’anni tra la morte dell’imperatore Alessandro Severo (235 d.C.) e l’avvento al trono di Diocleziano (285 d.C.) furono caratterizzati da una marcata anarchia militare, quando l’Impero romano rimase in balia degli eserciti che proclamavano autonomamente imperatore il proprio comandante, confidando di ottenere privilegi (come avanzamenti di carriera, assegnazione di terre e denaro), da invasioni barbariche che ponevano sotto pressione le zone di confine e da un certo livello di crisi interna, di connotazione sia economica, sia morale.
Alessandro, secondo quanto narra lo storico Erodiano, fu ucciso probabilmente il 19 marzo del 235 , presso la fortezza legionaria di Mogonaticum corrisponde all’odierna città tedesca di Magonza, in un ammutinamento di uomini guidati da Massimino, un ufficiale della Tracia, regione storica grossomodo corrispondente alla Bulgaria, al sud est della Grecia e dalla parte europea della Turchia.
Il malcontento della classe militare alla base di quest’atto è da ricondursi più all’inclinazione di Alessandro Severo a favorire l’aristocrazia senatoria a scapito delle gerarchie dell’esercito e dei finanziamenti allo stesso, piuttosto che al carattere dell’imperatore, connotato non di certo da tratti di decisionismo e risolutezza.
Dopo l’assassinio di questi, l’ultimo della dinastia dei Severi, fu proprio Massimino a esser proclamato imperatore dalle proprie truppe: fu il primo imperatore barbaro.
Per capirne meglio la figura e l’intima connessione di questo protagonista dell’antichità con il territorio del Friuli Venezia Giulia, ripercorriamone la vita e il suo particolarissimo cursus honorum.
Gaius Iulius Verus Maximinus, nacque approssimativamente nel 173 d.C. in Tracia, da una famiglia di pastori.
Viene descritto come un personaggio di statura estremamente alta -le fonti riportano che alla sua morte lo scheletro misurava otto piedi e mezzo, pari a due metri e quaranta- con lineamenti rozzi e sguardo poco vivace, ma con forza fisica enorme tale da compiere gesta fuori dal comune. Una prestanza supportata da un carattere fiero e risoluto: si narra che fosse in grado di muovere da solo un carro solamente a forza di braccia, o di frantumare pietre di tufo a mani nude.
Una volta acclamato imperatore, concesse donativi ai soldati e poté difendersi dalle congiure di Magno, consolare e patrizio, e di Quartino acclamato imperatore dai soldati orientali Osroeni.
La sua elezione fu riconosciuta dal senato. Verso la fine del 235 Massimino si aggregò, col titolo di Cesare, il figlio Massimo.
Massimino comprese ben presto che il suo governo doveva assicurare a Roma la sicurezza dei confini dell’Impero; combatté e respinse i Germani conducendo anche nel loro paese una guerra di sterminio; guerreggiò contro i Sarmati e contro i Daci, ristabilendo il limes germanico.
La guerra ai confini produsse il suo allontanamento dalla direzione degli affari interni e la sua assenza da Roma ove, negli anni del suo regno (235-38), non comparve mai.
Egli però volle consumare tutte le vendette che gli covavano nell’animo contro le persone dell’ordine senatorio e della borghesia dell’impero, escludendo dal Consiglio di Stato e dal suo seguito i personaggi illustri di cui Alessandro si era circondato e facendone trucidare molti, attuando confische, istituendo processi per i più singolari motivi.
Anche la tradizione cristiana rimprovera a Massimino di aver perseguitato i cristiani, ma si trattò di provvedimento limitato sia riguardo al numero, sia riguardo allo spazio e al tempo.
Questo regime gli alienò il palcet delle classi colte e suscitò la reazione senatoria, per cui egli si trovò a lottare contro l’insurrezione delle province e contro le competizioni dei rivali.
Dopo la morte dei due Gordiani, che avevano guidato una rivolta contro il potere imperiale di Massimino il Trace in Africa, i senatori romani decisero di continuare la resistenza eleggendo co-imperatori Pupieno e Balbino. Tuttavia, una fazione a Roma preferiva il nipote di Gordiano I, Gordiano III, e ciò fu causa duri combattimenti nelle strade della città. Balbino e Pupieno alla fine accettarono di proclamare Gordiano III come Cesare. Questo avvenne nel maggio del 238. Il senato approfittò della rivolta per porre al bando Massimino, proclamandolo nemico pubblico.
In Africa i ribelli furono battuti dal legato di Massimino, il quale si avviò dalla Pannonia verso l’Italia per vendicarsi del Senato.
Arrivo dell’imperatore nell’attuale Friuli
Nella sua marcia di avvicinamento ad Aquielia, l’esercito di Massimino attraversò le Alpi e si mosse verso la pianura friulana, con una formazione atta a sopportare anche eventuali, inaspettati assalti. L’imperatore marciava nella retroguardia, mentre i fianchi erano difesi da arcieri e cavalieri. Era presente anche un consistente numero di ausiliari germani, che furono posti all’avanguardia per sopportare gli eventuale assalti iniziali del nemico. Un corpo, quello degli ausiliari germani, connotato da grande valenza in campo ma da una certa velleità, diciamo, vocazionale.
Arrivato a Emona, l’odierna Lubiana, Massimino trovò i sui abitanti asserragliati entro il perimetro delle mura e i dintorni spogli di ogni genere alimentare. Dopo una notte passata in prossimità di questo baluardo, che non rappresentava un obiettivo, riprese la marcia verso Aquileia.
L’avanzata dell’esercito incontrò una serie di ostacoli.
In particolare, giunto presso il grande ponte sul fiume Isonzo, ubicato a una distanza di circa sedici miglia dalla città di Aquileia in prossimità dell’odierna località di Mainizza di Farra d’Isonzo, trovò che la piena delle acque aveva reso impossibile il guado e che il ponte era stato preventivamente demolito.
Questa situazione di stallo indubbiamente favorì le difese aquileiesi, che ebbero il tempo per organizzarsi ulteriormente e nel migliore dei modi. Erodiano ci fa pervenire che alcuni soldati germanici, non avvedutisi della reale impetuosità della corrente del fiume, tentarono di attraversarlo a cavallo, trovando così la morte.
A questo punto, il genio militare del suo esercito indicò di utilizzare le botti vinarie vuote che si potevano reperire nella campagna circostante per costruire un precaria piattaforma fluttuante zavorrata, sulla quale l’esercito avrebbe potuto attraversare il fiume: una soluzione rapida e pragmatica al problema.
L’assedio di Aquileia e la fine
Giunto ad Aquileia, egli trovò però una strenua difesa condotta con successo dai senatori Rutilio Pudente Crispino e Tullio Menofilo, che disponevano d’una guarnigione ben equipaggiata e che potevano contare sul supporto delle poderose mura della città.
Nonostante il primo attacco alle mura fosse stato respinto, invece di scendere rapidamente lungo la penisola per raggiungere la capitale, Massimino decise di insistere con l’assedio della città fortificata: un errore strategico che gli costerà molto caro.
Difatti fu affidata all’imperatore Pupieno l’organizzazione della difesa di Aquileia, che diresse da Ravenna, mentre Massimino non riusciva ad avere ragione della città assediata, in quanto estremamente ben organizzata anche sotto il profilo dell’approvvigionamento di viveri e di acqua, garantita dai numerosi pozzi presenti.
Ciò permise ai suoi avversari di organizzarsi, e Pupieno, a cui era stata affidata la conduzione della guerra, raggiunse Ravenna da cui diresse la difesa di Aquileia.
Anche se il rapporto di forze era ancora a vantaggio di Massimino, l’assedio si protrasse senza alcun risultato, giacché gli abitanti di Aquileia avevano fatto abbondanti scorte di viveri e disponevano di numerosi pozzi d’acqua all’interno della città.
Nonostante un segnale di cedimento della popolazione della città ad arrendersi, successivamente rientrato, non trasse detrimento lo spirito di resistenza degli Aquileiensi, grazie soprattutto all’incoraggiamento del senatore Crispino.
La battaglia fu aspra e sanguinaria: sotto la direzione dell’usurpatore e del figlio Gaio Giulio Vero Massimo, l’esercito del Trace, molto numeroso e ottimamente equipaggiato, nulla poté contro la resistenza aquileiese, che si avvalse anche dei più moderni e cruenti ritrovati bellici. Tra questi, pietre incendiarie ricoperte di pece e olio d’oliva, liquido infuocato composto da bitume e zolfo da riversarsi giù dalle mura e frecce infuocate.
Inoltre, la penuria di cibo indotta dal taglio degli approvvigionamenti operato da Pupieno, le condizioni atmosferiche ostili e la rigida disciplina imposta alle sue truppe dall’imperatore rinfocolarono il forte malcontento già endemico nelle truppe, alla base della successiva rivolta.
I soldati, che avevano proclamato Massimino imperatore qualche anno prima, al culmine della sommossa intestina lo deposero e lo assassinarono assieme al figlio, nella loro tenda. Alla fine ingloriosa seguì l’oltraggio delle spoglie: le loro teste mozzate furono infilate su delle picche e esposte in macabra processione agli Aquileiesi, mentre i loro corpi furono esposti a cani e uccelli, che ne finalizzarono lo scempio.
Le teste furono fatte recapitare a Marco Pupieno, che ricompensò le truppe in solido.
L’impero di Massimino durò in tutto tre anni; il Senato condannò Massimino alla damnatio memorie e fece cancellare il suo nome da monumenti ed epigrafi.
La testa appartenente a una statua bronzea raffigurante un notabile in età matura è stata rinvenuta, divelta e ammaccata, sul fondo di un pozzo in prossimità del Foro aquileiese.
Tradizionalmente attribuita a Massimino, la posizione del suo ritrovamento e le evidenti pieghe nel metallo, a testimonianza di un distacco operato con violenza, ben si sposerebbero alla cancellazione coatta del ricordo di questo imperatore che tentò di raggiungere Roma e il comando del modo conosciuto.
La definizione di un’articolata rete stradale rappresentò per Roma la vera e propria spina dorsale del suo sistema politico, fungendo sia da supporto al controllo dei punti più periferici, sia da vettore per la circolazione delle genti, dei beni e delle idee.
A partire dal secondo secolo a.C., nel settentrione d’Italia si sviluppò un complesso viario notevole, del quale Aquileia rappresentava uno dei nodi più orientali.
La metropoli romana era difatti raggiunta a occidente dalla via Annia, che la collegava ad una stazione iniziale -probabilmente Adria– dopo aver attraversato Padova, Altino e Concordia.
Dalla città, poi, si dipanava una via che raggiungeva la stazione di Fonte Timavi e, subito dopo, si biforcava, raggiungendo Tergeste col percorso meridionale e Tarsatica (Fiume) con quello settentrionale.
Per dare un’idea dei profondi mutamenti occorsi al territorio, in questa foto è riportata la via Annia nel punto in cui, con un ponte lungo circa 44 metri, attraversava il Canalat-Piavon vecchio, uno degli antichi rami del Piave.
Le pianure a cavallo tra Veneto e Friuli, al tempo, presentavano difatti un aspetto assai dissimile da quello odierno, interessato da molti interventi di bonifica: fiumi, canali e paludi erano continuamente presenti sul percorso viario, che per lunghi tratti costeggiava direttamente le lagune.
Di quest’opera, riemersa dalle campagne in seguito a scavi del ’49, si notano in particolare le basi dei piloni di profilo cuneiforme, scolpite nell’arenaria e poggianti su palizzate lignee, conformati per fronteggiare al meglio l’impeto della corrente e minimizzare la creazione di vortici al suo passaggio, garantendo robustezza e stabilità al manufatto.
Una situazione simile a quella esistente in prossimità di San Polo di Monfalcone, presso Ronchi, ove un ramo dell’Isonzo veniva oltrepassato da un ponte di cui ancora oggi esistono numerose testimonianze…
Correva l’anno 1888.
Un anno straordinario per l’archeologia in quanto a Tunisi veniva inaugurato il museo del Bardo, vero e proprio scrigno di tesori del passato, con la sua impressionante collezione di mosaici romani.
In quel periodo anche ad Aquileia proseguivano i rinvenimenti dei tasselli di quel mondo antico celato nelle sue campagne, del quale già da tre lustri s’ordinavano le collezioni presso l’Imperial Regio Museo dello Stato, nato per volere degli Asburgo e ospitato, allora come oggi, presso villa Cassis Faraone.
In quell’anno, un mese esatto prima del Natale, durante alcuni lavori in un vigneto nei fondi Ritter di Monastero fu scoperto un magnifico rilevo lapideo di Mitra tauroctono, assieme al frammento di un’ara votiva.
Tale rilievo riemergeva dal passato in uno stato di conservazione del tutto eccezionale, forse intenzionalmente nascosto a breve distanza dal mitreo che un tempo lo accolse.
La storia di questo capolavoro scultoreo del mondo romano incrociò qualche mese più tardi quella di una delle più importanti personalità del mondo finanziario di Trieste: il barone Carlo von Reinelt.
Già presidente della locale raffineria di petrolio e di una notissima compagnia assicurativa, nel 1879 andò a presiedere la Camera di Commercio di Trieste alla quale, grazie a un prestito personale, permise la costruzione dei magazzini del porto.
Il barone, probabilmente l’esponente più ricco dell’alta borghesia imprenditoriale triestina dell’ottocento, acquistò il rilievo ed altri pezzi agli allora proprietari del fondo e, nonostante avesse già accordato la destinazione di quei preziosi reperti al locale Museo di Stato, nell’estate del 1889 decise di spedire il tutto al Kunsthistorisches Museum di Vienna, inaugurato nel 1891 e divenuto scrigno di molte collezioni private imperiali.
Iniziativa che suscitò la più viva riprovazione nel mondo accademico locale e non solo.
Il meraviglioso rilievo s’involava dunque per sempre lontano da Aquileia, mentre il suo calco è oggi esposto presso il Museo Archeologico Nazionale.
[continua dopo le foto]
In queste foto, scattate all’originale custodito presso il museo viennese, si può ammirare la scena centrale del culto di Mitra, dio della luce o ‘Sol Invictus‘, mentre costringe il toro al suolo all’interno di un antro, nell’attesa del segno del corvo per compierne l’uccisione.
Il serpente e il cane si nutrono del sangue del toro mentre i due geni, Cautes e Cautopates, ai due lati del dio, personificano l’eterno ciclo di rinnovamento tra vita e morte.
Cautopates, in questa rappresentazione, con la sua fiaccola abbassata rappresenta il tramonto e precede Cautes, l’aurora, suggerendo la tensione all’eterna rinascita.
Al solstizio d’inverno la Natura muore, per poi resuscitare in primavera, traguardando il solstizio d’estate.
Ed è proprio a Natale che il sole inizia a rinascere, dopo l’apparente pausa che si prende nello volta stellata, tramontando e sorgendo illusoriamente nella stessa posizione, prima d’invertire il cammino e procedere nuovamente verso l’equatore celeste. Invitto, in questa sua ciclica tendenza alla rinascita.
Un fenomeno naturale osservato dalle popolazioni dell’emisfero boreale già dalla notte dei tempi.
Già Marco Aurelio Antonino Augusto, imperatore d’origini siriane che regnò dal 218 al 222 e noto come Eliogabalo, dalla sua carica di sacerdote del dio sole El-Gabal, introdusse a Roma il culto di Mitra.
Circa mezzo secolo più tardi, nel 274, l’imperatore Aureliano decretò che il 25 dicembre sarebbe stato il Dies Natalis Solis Invicti, includendo la data nelle festività dei Saturnali, dedicati alla protezione della fecondità dei raccolti e quindi della famiglia.
Ma fu l’imperatore Costantino, nel 330, a decretare la coincidenza tra la nascita di Gesù e la celebrazione di origini pagane del Sol Invictus.
Il 25 dicembre di quell’anno originava dunque il Natale cristiano, definitivamente ufficializzato da papa Giulio I, pochi anni dopo l’editto di Costantino.
Nel quindicesimo secolo, secondo l’opera predicatoria di San Bernardino da Siena, francescano canonizzato nel 1450 da papa Niccolò V, l’ostia consacrata iniziò ad esser esposta in ostensori recanti forma di sole che irradia raggi di luce.
La commistione tra il culto del sole e quello di Cristo mostra così, in quest’arredo sacro, una crasi fisica che ancor oggi ne rammenta le comuni origini.
In epoca romana, i contenitori destinati al trasporto di alimenti erano rappresentati dalle anfore che, nelle loro diverse forme, potevano racchiudere prodotti quali il garum, l’olio d’oliva e il vino, ma anche spezie, semi, conserve di frutta, datteri e altro ancora.
Essendo principalmente costruite in terracotta, di esse è giunta sino ai nostri giorni una variegata testimonianza, apprezzabile presso le collezioni di numerosi musei archeologici.
Ben più raro è poter osservare un esemplare d’una botte lignea o parte di questa, come è invece successo nel caso del ritrovamento durante gli scavi condotti negli anni ’70 dello scorso secolo, presso la villa della Punta, posta sull’isola omonima -oggi scomparsa- in prossimità della foce del fiume Timavo.
Difatti, nel corso di questi, emerse un coperchio d’una botte utilizzata per il trasporto del vino, decisamente ben conservato grazie alle condizioni anaerobiche dovute alla sommersione nei fanghi palustri, che ne hanno ostacolato la decomposizione.
Di quest’interessante testimonianza del II secolo dopo Cristo, particolare interesse suscitano alcuni graffiti e il marchio impresso a fuoco sulla superficie, che reca la scritta
C.VI[—]VS/ [—]
Considerato il periodo storico, risulta suggestivo immaginare che Massimino il Trace, soldato barbaro proclamato Imperatore dalle legioni a seguito di vittoriose campagne militari, servendosi di botti simili a quella cui appartenne questo coperchio, costruì un ponte per attraversare con le sue truppe un Isonzo dalle acque ingrossate per via dello scioglimento dei nevai alpini, nel tentativo di raggiungere ed assediare Aquileia.
Difatti, il Pons Sonti in località Mainizza era stato in precedenza abbattuto proprio per impedire a Massimino il raggiungimento della città romana sul fiume Natissa, ove qualche tempo dopo, al termine d’un estenuante assedio, troverà la morte per mano dei suoi stessi soldati.
Sabato 26 maggio 2018 si è tenuto l’ultimo appuntamento del Progetto scuole per l’anno scolastico 2017/2018.
Questa volta abbiamo cambiato location per i nostri laboratori e ci siamo recati nella splendida Aquileia, con la classe 5^A della Scuola primaria Collodi di Fogliano.
Complice la bellissima giornata di sole, abbiamo potuto ricostruire all’aperto la struttura dei mosaici della Basilica e visitare il porto fluviale, il foro e i mosaici conservati al Museo Archeologico Nazionale.
Ringraziamo le maestre per la gentile collaborazione e i bambini per la loro partecipazione piena d’entusiasmo!
Il lacus Timavi, rappresentato nella Tabula Peutingeriana.
Il toponimo Fonte Timavi, come già fece notare la dott.ssa Bertacchi, archeologa già direttrice del Museo Archeolgico Nazionale di Aquileia, è una denominazione che è possibile far riferire all’antica mansio romana insistente in epoca imperiale sulla via Gemina (?), oggi racchiusa nel complesso dell’acquedotto del Randaccio.
La Tabula Peutingeriana, inserita nell’elenco delle Memorie del Mondo dell’UNESCO, è una copia bassomedievale di un antico stradario militare dell’Impero romano.
Deve il suo nome a Konrad Peutinger, antiquario e umanista formatosi a Roma e a Padova, che ereditò la mappa dal bibliotecario dell’imperatore Massimiliano I d’Absburgo, Conrad Celtis.
Conservata presso l’Hofbibliothek di Vienna, ha acquisito anche il nome di Codex Vindobonensis (324), dalla denominazione romana della capitale austriaca.
La dignità topografica riservata sulla carta alla Fonte Timavi è del tutto parificabile a quella della vicina Aquileia: in epoca calssica la zona del lacus deve aver di certo rivestito un ruolo cardinale come nodo viario, commerciale e strategico.
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