E veniamo dunque al ponte di Farra.
Come abbiamo visto nel corso del nostro “racconto a puntate”, gli antichi itinerari stradali e la Tabula Peutingeriana segnalano, lungo la via per Emona a circa a 20 km da Aquileia, una stazione denominata Ponte Sonti.
Anche se non avessimo altre fonti antiche, testimonianze di epoche più recenti o evidenze archeologiche a confermarlo, già il nome della località sarebbe sufficiente a farci sapere che in quel punto del territorio in epoca romana sorgeva un ponte, edificato per consentire alla strada che conduceva alle regioni orientali dell’Impero di superare il fiume Isonzo nel suo tratto più settentrionale.
I dati archeologici ad oggi disponibili ci suggeriscono che intorno a questo punto strategico oggi presso la chiesa della Mainizza – in età romana esistessero, oltre alle strutture della stazione di sosta (mansio), un’area sacra al fiume divinizzato e almeno una necropoli monumentale forse legata a un piccolo abitato.
Osservazioni svolte a partire dalla metà del 1700 sui resti del ponte, allora ancora conservati e visibili “nei pressi di Gradisca”, rinvenimenti casuali e ricerche condotte dagli inizi del Novecento su quanto emergeva durante periodi di magra del fiume hanno portato a delle ipotesi ricostruttive dell’eccezionale manufatto, basate anche su quanto ricordato dalle fonti antiche.
Il ponte, lungo almeno 200 m, era costituito da 12 arcate, ciascuna larga 12 m, ed era realizzato in blocchi di arenaria.
Nel corso dei decenni vennero recuperati nell’area numerosi blocchi di pietra pertinente all’alzato: tra questi, alcuni elementi di monumenti funerari in calcare riutilizzati nella struttura (quattro di questi li potete osservare nella mostra “Percorsi di pietra”).
Indagini archeologiche più recenti (2010-2011) hanno messo in luce una delle basi dei piloni del ponte caratterizzata, nella parte inferiore, da un sistema di pali in legno conficcati intorno alla struttura. Analisi dendrocronologiche indicano che il legno utilizzato era quello di quercia. Inoltre la datazione radiocarbonica (C14) colloca l’utilizzo dei pali tra la fine del I secolo e gli inizi del II secolo d.C.
Dal momento che la strada, come abbiamo precedentemente ricordato, esisteva già alla fine del I secolo a.C. ed era stata molto probabilmente potenziata a supporto delle operazioni militari condotte da Ottaviano tra il 35 e il 33 a.C., è probabile che un primo ponte, forse realizzato in legno, sia stato sostituito nella prima età imperiale da un’opera in pietra che corrisponde all’imponente manufatto descritto dallo storico Erodiano (170-250 d.C.) distrutto nel 238 d.C.
Sulla base delle evidenze disponibili è possibile ipotizzare che il ponte fu poi oggetto di un rifacimento nel III secolo d.C.
Per questo intervento furono impiegate lapidi, decorate e iscritte, provenienti da una vicina necropoli in uso nei due secoli precedenti e ormai dismessa.
Costruire un ponte è stato, per chi nel nostro passato ha avuto per primo questa brillante idea, un atto di vera e propria sfida alla natura e agli ostacoli da questa contrapposti alla volontà di spostamento degli esseri umani.
Oggi come allora questa tipologia di manufatti riveste anche un forte significato simbolico: unisce e divide, è sospeso ma al tempo stesso è radicato al suolo, con sfrontatezza permette agli uomini di oltrepassare l’acqua del fiume, elemento sacro in molte culture del passato.
Forse è per questo motivo che nei pressi del ponte della Mainizza si trovava un’area sacra dedicata all’Isonzo in forma di divinità, il dio Aesontius… era necessario tenersi buono il dio e farsi perdonare per l’atto sacrilego!
Non sappiamo molto dei ponti più antichi, ponti sospesi realizzati con fibre vegetali, che erano certamente utilizzati in regioni extraeuropee, nel Sud Est Asiatico, nel Sud America e nell’Africa Equatoriale, o dei primi esemplari in legno d’epoca romana come il ponte Sublicio che era già in uso nel VII secolo a.C.
Le fonti antiche ci raccontano ad esempio di ponti in legno come quello fatto costruire da Cesare sul Reno nel 55 a.C e descritto nel De Bello Gallico.
Di certo i ponti “ad arco” in muratura e poi in pietra dalla metà del III secolo a.C. in poi ci illustrano la straordinaria abilità degli ingegneri romani, acquisita dagli Etruschi, nella progettazione e realizzazione di opere considerate “sacre”, al punto che la massima carica a carattere giuridico-sacerdotale romana, appunto il Pontifex, traeva il suo nome dalle figure istituzionali che in origine avevano curato l’edificazione dei primi ponti sul Tevere.
Con la grande rete delle strade consolari numerosi ponti ad arco a tutto sesto furono costruiti per permettere alle truppe militari ma anche ai traffici commerciali di superare ostacoli come fiumi o valli o terreni impervi. Ma come si costruiva un ponte in età romana?…
In copertina, la foto del ponte romano del secondo secolo sul fiume Carapelle (Foggia), preservatosi sin ai nostri giorni.
Le immagini sottostanti riportano invece la situazione contemporanea del ponte romano di Ceggia (Venezia), lungo la via Annia.
Di quest’opera, riemersa dalle campagne in seguito a scavi del ’49, si notano in particolare le basi dei piloni di profilo cuneiforme, scolpite nell’arenaria e poggianti su palizzate lignee, conformati per fronteggiare al meglio l’impeto della corrente e minimizzare la creazione di vortici al suo passaggio, garantendo robustezza e stabilità al manufatto.
Una situazione simile a quella esistente in prossimità di San Polo di Monfalcone, presso Ronchi, ove un ramo dell’Isonzo veniva oltrepassato da un ponte di cui ancora oggi esistono alcune testimonianze ➔ Ponte di Ronchi dei Legionari.
Immaginiamo di star percorrendo, magari a cavallo, una strada romana, per esempio proprio quella che portava da Aquileia a Emona…siamo stanchi, accaldati, la strada è polverosa e sembra non finire mai. Ma sappiamo dalle nostre mappe che presto incontreremo un punto di sosta.
Eccolo lì, proprio davanti a noi!
È una mansio, una specie di piccolo albergo dove potremo riposare, rifocillarci e cambiare la nostra cavalcatura, per poi riprendere il nostro viaggio…a breve distanza si può vedere il grande ponte che attraversa l’Isonzo e che ci consentirà di proseguire lungo la strada.
È il caso di dire che …siamo a cavallo!
Le mansiones, o stazioni di posta, si trovavano lungo le principali strade alla distanza di un giorno di viaggio l’una dall’altra, spesso in vicinanza di incroci o in prossimità dell’attraversamento di un fiume, proprio come la mansio presso il Pons Sonti citata dalla Tabula Peutingeriana. Erano strutture destinate a chi viaggiava con un incarico ufficiale. Dotate di ambienti per dormire, a volte erano riccamente decorate, fornite di impianti termali, e corredate da magazzini e scuderie. Qui i viaggiatori potevano passate la notte.
A questo proposito ricordiamo che scavi archeologici condotti negli anni Quaranta nell’area contigua alla chiesetta della Mainizza hanno portato alla luce i resti di una struttura a pianta rettangolare lunga 26 metri con tre absidi…
Presso le più frequenti mutationes, a cinque miglia l’una dall’altra, era invece possibile cambiare i cavalli o far ricevere ai propri animali le cure di un veterinario. Altri punti di sosta, come bettole e taverne, fornivano ristoro e riposo ai privati cittadini in viaggio.
[in foto: la posizione approssimata della pianta della mansio, ottenuta sovrapponendo a un’ortofoto contemporanea la posizione degli scavi riportati in una mappa catastale]
Sabato 24 giugno alle ore 18:00, si è tenuta l’inaugurazione della mostra Percorsi di pietra – Verso il museo archeologico di Farra d’Isonzo presso il Museo di Documentazione della Civiltà Contadina Friulana di Farra d’Isonzo.
Dopo una prima presentazione del progetto da parte di Piera Mauchigna, vicepresidente dell’associazione Lacus Timavi , han fatto seguito il benvenuto da parte dell’Amministrazione Comunale di Farra, nella persona del sindaco Stefano Turchetto, e l’intervento del Consigliere Regionale Diego Bernardis, presidente della V Commissione Cultura.
La professoressa Fulvia Mainardis, docente di storia romana dell’Università degli Studi di Trieste che ha amabilmente intrattenuto i presenti con un dettagliato quadro storico sull’importanza del ponte romano che, nei pressi della Mainizza, attraversava il fiume Isonzo e che è stato teatro di numerose vicende d’armi e non solo, nel corso della sua bimillenaria storia.
Nel rappresentare l’Amministrazione Comunale di Farra d’Isonzo, il sindaco Turchetto ha sottolineato come la valorizzazione di questo patrimonio culturale sia stata resa possibile grazie ai bandi di ripartenza Cultura e Sport della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, auspicando che questa mostra rappresenti il primo passo verso la creazione di un museo archeologico nel comune di Farra d’Isonzo.
Vi è poi stato un intermezzo musicale del Coro dei bambini, partecipanti al Music Summer Camp di Farra d’Isonzo, a cura dell’Accademia lirica Santa Croce, sotto la guida del MºMassimiliano Svab e diretti dal MºAlessandro Svab, che ha allietato una sala gremita del pubblico intervenuto per questa speciale occasione.
Ha fatto seguito la proiezione di un video illustrativo sui passaggi per il recupero e la musealizzazone dei reperti lapidei che sono ospitati al piano terra del Museo della Civiltà Contadina Friulana, per poi portare i presenti nella sede vera e propria della mostra dove la professoressa Mainardis e il comitato scientifico dell’associazione culturale Lacus Timavi di Monfalcone, composto dalle archeologhe Paola Maggi, Renata Merlatti e Gabriella Petrucci, hanno approfondito la storia degli elementi esposti in mostra e del ponte romano. In tal senso vi è stato anche l’intervento del presidente dell’associazione culturale Lacus Timavi di Monfalcone Andrea Fasolo, coordinatore tecnico di progetto, realizzata in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio del Friuli-Venezia Giulia, con la Fondazione Aquileia e che gode del patrocinio dell’Università degli Studi di Trieste.
I cinquant’anni tra la morte dell’imperatore Alessandro Severo (235 d.C.) e l’avvento al trono di Diocleziano (285 d.C.) furono caratterizzati da una marcata anarchia militare, quando l’Impero romano rimase in balia degli eserciti che proclamavano autonomamente imperatore il proprio comandante, confidando di ottenere privilegi (come avanzamenti di carriera, assegnazione di terre e denaro), da invasioni barbariche che ponevano sotto pressione le zone di confine e da un certo livello di crisi interna, di connotazione sia economica, sia morale.
Alessandro, secondo quanto narra lo storico Erodiano, fu ucciso probabilmente il 19 marzo del 235 , presso la fortezza legionaria di Mogonaticum corrisponde all’odierna città tedesca di Magonza, in un ammutinamento di uomini guidati da Massimino, un ufficiale della Tracia, regione storica grossomodo corrispondente alla Bulgaria, al sud est della Grecia e dalla parte europea della Turchia.
Il malcontento della classe militare alla base di quest’atto è da ricondursi più all’inclinazione di Alessandro Severo a favorire l’aristocrazia senatoria a scapito delle gerarchie dell’esercito e dei finanziamenti allo stesso, piuttosto che al carattere dell’imperatore, connotato non di certo da tratti di decisionismo e risolutezza.
Dopo l’assassinio di questi, l’ultimo della dinastia dei Severi, fu proprio Massimino a esser proclamato imperatore dalle proprie truppe: fu il primo imperatore barbaro.
Per capirne meglio la figura e l’intima connessione di questo protagonista dell’antichità con il territorio del Friuli Venezia Giulia, ripercorriamone la vita e il suo particolarissimo cursus honorum.
Gaius Iulius Verus Maximinus, nacque approssimativamente nel 173 d.C. in Tracia, da una famiglia di pastori.
Viene descritto come un personaggio di statura estremamente alta -le fonti riportano che alla sua morte lo scheletro misurava otto piedi e mezzo, pari a due metri e quaranta- con lineamenti rozzi e sguardo poco vivace, ma con forza fisica enorme tale da compiere gesta fuori dal comune. Una prestanza supportata da un carattere fiero e risoluto: si narra che fosse in grado di muovere da solo un carro solamente a forza di braccia, o di frantumare pietre di tufo a mani nude.
Una volta acclamato imperatore, concesse donativi ai soldati e poté difendersi dalle congiure di Magno, consolare e patrizio, e di Quartino acclamato imperatore dai soldati orientali Osroeni.
La sua elezione fu riconosciuta dal senato. Verso la fine del 235 Massimino si aggregò, col titolo di Cesare, il figlio Massimo.
Massimino comprese ben presto che il suo governo doveva assicurare a Roma la sicurezza dei confini dell’Impero; combatté e respinse i Germani conducendo anche nel loro paese una guerra di sterminio; guerreggiò contro i Sarmati e contro i Daci, ristabilendo il limes germanico.
La guerra ai confini produsse il suo allontanamento dalla direzione degli affari interni e la sua assenza da Roma ove, negli anni del suo regno (235-38), non comparve mai.
Egli però volle consumare tutte le vendette che gli covavano nell’animo contro le persone dell’ordine senatorio e della borghesia dell’impero, escludendo dal Consiglio di Stato e dal suo seguito i personaggi illustri di cui Alessandro si era circondato e facendone trucidare molti, attuando confische, istituendo processi per i più singolari motivi.
Anche la tradizione cristiana rimprovera a Massimino di aver perseguitato i cristiani, ma si trattò di provvedimento limitato sia riguardo al numero, sia riguardo allo spazio e al tempo.
Questo regime gli alienò il palcet delle classi colte e suscitò la reazione senatoria, per cui egli si trovò a lottare contro l’insurrezione delle province e contro le competizioni dei rivali.
Dopo la morte dei due Gordiani, che avevano guidato una rivolta contro il potere imperiale di Massimino il Trace in Africa, i senatori romani decisero di continuare la resistenza eleggendo co-imperatori Pupieno e Balbino. Tuttavia, una fazione a Roma preferiva il nipote di Gordiano I, Gordiano III, e ciò fu causa duri combattimenti nelle strade della città. Balbino e Pupieno alla fine accettarono di proclamare Gordiano III come Cesare. Questo avvenne nel maggio del 238. Il senato approfittò della rivolta per porre al bando Massimino, proclamandolo nemico pubblico.
In Africa i ribelli furono battuti dal legato di Massimino, il quale si avviò dalla Pannonia verso l’Italia per vendicarsi del Senato.
Arrivo dell’imperatore nell’attuale Friuli
Nella sua marcia di avvicinamento ad Aquielia, l’esercito di Massimino attraversò le Alpi e si mosse verso la pianura friulana, con una formazione atta a sopportare anche eventuali, inaspettati assalti. L’imperatore marciava nella retroguardia, mentre i fianchi erano difesi da arcieri e cavalieri. Era presente anche un consistente numero di ausiliari germani, che furono posti all’avanguardia per sopportare gli eventuale assalti iniziali del nemico. Un corpo, quello degli ausiliari germani, connotato da grande valenza in campo ma da una certa velleità, diciamo, vocazionale.
Arrivato a Emona, l’odierna Lubiana, Massimino trovò i sui abitanti asserragliati entro il perimetro delle mura e i dintorni spogli di ogni genere alimentare. Dopo una notte passata in prossimità di questo baluardo, che non rappresentava un obiettivo, riprese la marcia verso Aquileia.
L’avanzata dell’esercito incontrò una serie di ostacoli.
In particolare, giunto presso il grande ponte sul fiume Isonzo, ubicato a una distanza di circa sedici miglia dalla città di Aquileia in prossimità dell’odierna località di Mainizza di Farra d’Isonzo, trovò che la piena delle acque aveva reso impossibile il guado e che il ponte era stato preventivamente demolito.
Questa situazione di stallo indubbiamente favorì le difese aquileiesi, che ebbero il tempo per organizzarsi ulteriormente e nel migliore dei modi. Erodiano ci fa pervenire che alcuni soldati germanici, non avvedutisi della reale impetuosità della corrente del fiume, tentarono di attraversarlo a cavallo, trovando così la morte.
A questo punto, il genio militare del suo esercito indicò di utilizzare le botti vinarie vuote che si potevano reperire nella campagna circostante per costruire un precaria piattaforma fluttuante zavorrata, sulla quale l’esercito avrebbe potuto attraversare il fiume: una soluzione rapida e pragmatica al problema.
L’assedio di Aquileia e la fine
Giunto ad Aquileia, egli trovò però una strenua difesa condotta con successo dai senatori Rutilio Pudente Crispino e Tullio Menofilo, che disponevano d’una guarnigione ben equipaggiata e che potevano contare sul supporto delle poderose mura della città.
Nonostante il primo attacco alle mura fosse stato respinto, invece di scendere rapidamente lungo la penisola per raggiungere la capitale, Massimino decise di insistere con l’assedio della città fortificata: un errore strategico che gli costerà molto caro.
Difatti fu affidata all’imperatore Pupieno l’organizzazione della difesa di Aquileia, che diresse da Ravenna, mentre Massimino non riusciva ad avere ragione della città assediata, in quanto estremamente ben organizzata anche sotto il profilo dell’approvvigionamento di viveri e di acqua, garantita dai numerosi pozzi presenti.
Ciò permise ai suoi avversari di organizzarsi, e Pupieno, a cui era stata affidata la conduzione della guerra, raggiunse Ravenna da cui diresse la difesa di Aquileia.
Anche se il rapporto di forze era ancora a vantaggio di Massimino, l’assedio si protrasse senza alcun risultato, giacché gli abitanti di Aquileia avevano fatto abbondanti scorte di viveri e disponevano di numerosi pozzi d’acqua all’interno della città.
Nonostante un segnale di cedimento della popolazione della città ad arrendersi, successivamente rientrato, non trasse detrimento lo spirito di resistenza degli Aquileiensi, grazie soprattutto all’incoraggiamento del senatore Crispino.
La battaglia fu aspra e sanguinaria: sotto la direzione dell’usurpatore e del figlio Gaio Giulio Vero Massimo, l’esercito del Trace, molto numeroso e ottimamente equipaggiato, nulla poté contro la resistenza aquileiese, che si avvalse anche dei più moderni e cruenti ritrovati bellici. Tra questi, pietre incendiarie ricoperte di pece e olio d’oliva, liquido infuocato composto da bitume e zolfo da riversarsi giù dalle mura e frecce infuocate.
Inoltre, la penuria di cibo indotta dal taglio degli approvvigionamenti operato da Pupieno, le condizioni atmosferiche ostili e la rigida disciplina imposta alle sue truppe dall’imperatore rinfocolarono il forte malcontento già endemico nelle truppe, alla base della successiva rivolta.
I soldati, che avevano proclamato Massimino imperatore qualche anno prima, al culmine della sommossa intestina lo deposero e lo assassinarono assieme al figlio, nella loro tenda. Alla fine ingloriosa seguì l’oltraggio delle spoglie: le loro teste mozzate furono infilate su delle picche e esposte in macabra processione agli Aquileiesi, mentre i loro corpi furono esposti a cani e uccelli, che ne finalizzarono lo scempio.
Le teste furono fatte recapitare a Marco Pupieno, che ricompensò le truppe in solido.
L’impero di Massimino durò in tutto tre anni; il Senato condannò Massimino alla damnatio memorie e fece cancellare il suo nome da monumenti ed epigrafi.
La testa appartenente a una statua bronzea raffigurante un notabile in età matura è stata rinvenuta, divelta e ammaccata, sul fondo di un pozzo in prossimità del Foro aquileiese.
Tradizionalmente attribuita a Massimino, la posizione del suo ritrovamento e le evidenti pieghe nel metallo, a testimonianza di un distacco operato con violenza, ben si sposerebbero alla cancellazione coatta del ricordo di questo imperatore che tentò di raggiungere Roma e il comando del modo conosciuto.
S’inaugura a Borgo Colmello di Farra d’Isonzo l’articolato iter che, in stretta collaborazione con la locale Amministrazione Comunale, intende portare alla definizione del primo nucleo di un museo archeologico dedicato alla collezione di reperti riferibili al complesso del ponte romano sull’Isonzo in località Mainizza, alla stazione itineraria e alla prossima necropoli.
Nel corso dei mesi a venire, le varie fasi di ricerca, indagine e recupero dei beni da musealizzare saranno illustrate parallelamente alla storia dei luoghi, delle vicissitudini e dei personaggi noti e meno noti che, nel corso del tempo, si son posti a vario titolo in relazione con questo territorio.
In epoca romana, i contenitori destinati al trasporto di alimenti erano rappresentati dalle anfore che, nelle loro diverse forme, potevano racchiudere prodotti quali il garum, l’olio d’oliva e il vino, ma anche spezie, semi, conserve di frutta, datteri e altro ancora.
Essendo principalmente costruite in terracotta, di esse è giunta sino ai nostri giorni una variegata testimonianza, apprezzabile presso le collezioni di numerosi musei archeologici.
Ben più raro è poter osservare un esemplare d’una botte lignea o parte di questa, come è invece successo nel caso del ritrovamento durante gli scavi condotti negli anni ’70 dello scorso secolo, presso la villa della Punta, posta sull’isola omonima -oggi scomparsa- in prossimità della foce del fiume Timavo.
Difatti, nel corso di questi, emerse un coperchio d’una botte utilizzata per il trasporto del vino, decisamente ben conservato grazie alle condizioni anaerobiche dovute alla sommersione nei fanghi palustri, che ne hanno ostacolato la decomposizione.
Di quest’interessante testimonianza del II secolo dopo Cristo, particolare interesse suscitano alcuni graffiti e il marchio impresso a fuoco sulla superficie, che reca la scritta
C.VI[—]VS/ [—]
Considerato il periodo storico, risulta suggestivo immaginare che Massimino il Trace, soldato barbaro proclamato Imperatore dalle legioni a seguito di vittoriose campagne militari, servendosi di botti simili a quella cui appartenne questo coperchio, costruì un ponte per attraversare con le sue truppe un Isonzo dalle acque ingrossate per via dello scioglimento dei nevai alpini, nel tentativo di raggiungere ed assediare Aquileia.
Difatti, il Pons Sonti in località Mainizza era stato in precedenza abbattuto proprio per impedire a Massimino il raggiungimento della città romana sul fiume Natissa, ove qualche tempo dopo, al termine d’un estenuante assedio, troverà la morte per mano dei suoi stessi soldati.
‘Sacro all’isonzo, Lucio Barbio Montano, primo centurione, ha sciolto un voto di buon grado a giusto titolo‘
.
L’antico nome dell’Isonzo (Aesontius) è documentato da questa epigrafe, studiata dall’archeologo Giovanni Battista Brusin e rinvenuta nel 1922 in località Mainizza, sulla riva dell’Isonzo, in prossimità del grande ponte romano che in quel punto lo attraversava.
L’altra epigrafe che ne riporta il nome è stata rinvenuta nel 1989, presso San Pier d’isonzo.
Il Brusin, aquileiese, negli anni ’20 fu direttore del Museo Archeologico Nazionale di Aquileia e iniziò gli scavi al foro e al porto dell’antica metropoli romana.
Le strade romane per la Pannonia rappresentavano un percorso estremamente importante di comunicazione tra area adriatica, area alpina (il Noricum) e quella danubiana.
Nel primo secolo a.C. fu tracciata la strada che collegava Aquileia a Nauporto, odierna Vhrnika, in Slovenia, ove le merci venivano scaricate dai carri e imbarcate su traghetti che poi avrebbero raggiunto destinazioni remote utilizzando le vie d’acqua della Sava e del Danubio.
Questa strada ricalca un preesistente itinerario preistorico che, attraversando la Selva di Piro (ad Pirum), scavallava i rilievi carsici e consentiva di tagliare notevolmente le percorrenze.
Punto di passaggio del fiume Isonzo era rappresentato dal Pons Sonti, nei pressi dell’attuale località di Mainizza. Da questo luogo, allontanandosi da Aquileia, la strada traduceva poi a Castra ad Fluvium Frigidum, attuale Aidussina.
Senz’approfondire in questo momento gli straordinari fatti che riguardarono le località citate, nella foto qui sopra, scattata in prossimità della località Mainizza di Farra d’Isonzo al momento dell’ultima grande magra del fiume, si possono notare le basi dei pilastri di sostegno del ponte, che conobbe lunga e tormentata storia.
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