In questa foto, in cui sullo sfondo è riconoscibile San Giovanni di Duino, sono evidenziati due binari di solchi carrai.
Non si può determinare con esattezza se si possa trattare di uno sdoppiamento della carreggiata o di una sostituzione di un tratto eccessivamente logoro già ai tempi d’impiego della strada.
“..la via di Monfalcone per l’Istria nel 1371 venne rifatta dal Patriarca, il quale ricostruiva anche il ponte di pietra al confine di S. Giovanni. La strada era ancora del tempo romano e costeggiava la palude del <Lacus Timavi>…” (R. Pichler, ‘Il castello di Duino’ 1882 ).
Per ulteriori approfondimenti sulla viabilità romana locale, si rimanda ai contenuti del progetto SottoMonfalcone relativi alla strada romana a S. Giovanni di Duino, curato dall’associazione.
Indagando le origini della rete stradale che interessò l’antico Lisert, i ritrovamenti risalenti al periodo romano – materiali fittili, tombe- ne attestano il periodo di più intenso utilizzo, tenendo presente che questi percorsi furono utilizzati anche in epoche successive a quella romana.
Ciò è suffragato dal fatto che, ad esempio, il tratto diretto al ponte romano sul Locavaz era percorso dalle genti del carso sino al primo ‘900, presentando per via dell’uso intenso delle irregolarità nei solchi carrai, più logori e profondi in corrispondenza della traccia più a valle, gravata da un peso maggiore.
Nella foto, un’urna cineraria calcarea rinvenuta in prossimità della strada, in uno scatto di Abramo Schmid della Commissione Grotte di Trieste.
In questa carta, la sovrapposizione della Monfalcone ottocentesca all’antica città murata, il cui perimetro è ripreso grossomodo dalle attuali strade principali del centro.
Il lacus Timavi, rappresentato nella Tabula Peutingeriana.
Il toponimo Fonte Timavi, come già fece notare la dott.ssa Bertacchi, archeologa già direttrice del Museo Archeolgico Nazionale di Aquileia, è una denominazione che è possibile far riferire all’antica mansio romana insistente in epoca imperiale sulla via Gemina (?), oggi racchiusa nel complesso dell’acquedotto del Randaccio.
La Tabula Peutingeriana, inserita nell’elenco delle Memorie del Mondo dell’UNESCO, è una copia bassomedievale di un antico stradario militare dell’Impero romano.
Deve il suo nome a Konrad Peutinger, antiquario e umanista formatosi a Roma e a Padova, che ereditò la mappa dal bibliotecario dell’imperatore Massimiliano I d’Absburgo, Conrad Celtis.
Conservata presso l’Hofbibliothek di Vienna, ha acquisito anche il nome di Codex Vindobonensis (324), dalla denominazione romana della capitale austriaca.
La dignità topografica riservata sulla carta alla Fonte Timavi è del tutto parificabile a quella della vicina Aquileia: in epoca calssica la zona del lacus deve aver di certo rivestito un ruolo cardinale come nodo viario, commerciale e strategico.
In occasione di una bonifica resasi necessaria al canale d’accesso al Villaggio del Pescatore, a breve distanza dal sedime del Sidam, si rinvenne un deposito subacqueo di cocci, successivamente asportato e depositato nei pressi del ‘balo’, la grande palude bonificata e successivamente inglobata nella zona industriale di Monfalcone.
Le prime suggestive ipotesi circa quel rinvenimento fecero propendere per il carico perduto da un barcone, ivi naufragato.
Studi più accurati misero in luce la natura di quei reperti.
Che vennero datati come appartenenti al periodo tra il I e il II sec. d.C. e a quello tardorinascimentale.
Trattandosi di materiale decorato, riservato ad una clientela nobiliare, si pensò più opportuno ricondurre tale ritrovamento nell’ambito di un centro abitato o, ancor meglio, di una villa patrizia.
E, sorgendo sulla via tra Tergeste ed Aquileia il Castellum Pucinum, in cui si produceva l’omonimo vino, particolarmente apprezzato da Livia Drusilla, moglie del primo imperatore romano Augusto, ciò giustificherebbe l’insediamento in zona di una fabbrica votata alla produzione di materiale così raffinato.
Questa foto aerea che riprende dall’alto il porto del Timavo e che reca la data del 26 maggio 1954, è opera dell’Istituto Geografico Militare.
Si notano:
A, l’Isola di Sant’Antonio, oggi quasi interamente spianata, sul cui versante settentrionale s’intravvede il complesso delle Terme Romane.
B, l’Isola della Punta (o Amarina), oggi scompara e grossomodo inclusa nel complesso industriale Mar-Ter.
C, la scomparsa Isola di Belforte.
Tra l’isola A e B s’intravvede chiaramente -contrassegnato dalle frecce bianche- l’istmo semisommerso che le collegava.
D, zona delle risorgive del fiume Timavo.
E, lo sbocco del canale del Locavaz. Gli asterischi gialli indicano il cordone litoraneo che, tra porto Ròsega e la foce del Locavaz+Timavo, ha spostato in epoca recente la linea di costa, oggi parzialmente delimitata dalla cassa di colmata del Lisert.
In questa splendida panoramica raffigurante la foce del Timavo, le tracce di un antico passato e la quiete del luogo palustre si confrontano con i cenni di una modernità che, di lì a poco, ne avrebbe trasformato radicalmente l’aspetto.
Con delle placide anse appena accennate, il Timavo incontra il mare in prossimità del ‘balo’, l’affioramento alluvionale che si può notare sulla destra, un tempo sede insulare del castelletto veneziano del Bel Forte.
Sulla sinistra del corso d’acqua si nota chiaramente l’assenza del Villaggio del Pescatore, edificato nei primi anni ‘50, mentre in lontananza, oltre le zone umide, un battello a vapore traina una chiatta, pennellando il cielo di questa foto con un lungo sbuffo di fumo.
foto: 1°marzo 1911 – foce del Timavo dal sommo dell’Isola della Punta (Civ. Musei di Storia ed Arte di, fotografo Alberto Puschi).
L’isola della punta (o Quota 12) fu sbancata negli anni ’70 per favorire l’insediamento dell’industria, al Lisert.
Nei secoli, fu appellata anche come anche Monte della Fornace, Amarina e Montagnola.
In questa foto ricolorata, scattata sul finire dell’800 dalla sommità della collinetta calcarea di Sant’Antonio che un tempo appartenne una delle Insulae Clarae, si nota la chiesetta dedicata al Santo, cdistrutta nella prima guerra mondiale durante la X battaglia dell’Isonzo.
Di seguito, una suggestiva descrizione tatta dal libro del Pocar ‘Monfalcone e suo Territorio’.
<<Il Monte di Sant’ Antonio – adorno in primavera di bei ciclamini – porta oggi tal nome perché sullo stesso v’ è la chiesuola dedicata a Sant’ Antonio Abate.
Colassù si ammira sull’altare laterale, a destra di chi entra, un quadro rappresentante la Vergine, opera di buon pennello, e che si ritiene della scuola del Bassano.
Anche gli affreschi che coprono le pareti sono pregevoli, specialmente la Cœna Domini a sinistra di chi entra, opera del 1400.
Si deve credere che questa piccola chiesa sia stata fabbricata dai fedeli quando infieriva la malattia del fuoco sacro perché a tal Santo si ricorreva per la guarigione. – La sorte subita, nell’anno 1806, dalle altre chiesuole di Monfalcone, toccò pure a questa: cioè fu chiusa.>>
In questa foto scattata nei tardi anni trenta, si può notare l’avvio dei lavori di ricostruzione delle terme romane, partito dallo smantellamento di preesistenti strutture, irreparabilmente offese dalla furia del primo conflitto bellico.
In questo fotomontaggio si appaia alla foto già pubblicata in precedenza, raffigurante un Lisert ancora definito in molti tratti originari, una che mostra come la palude della Risaia abbia lasciato spazio alla nuova vocazione industriale di quest’antica area umida.
Era trascorso un cinquantennio da quando per la prima volta le legioni romane di Aquileia si erano accampate presso il porto di Timavo sotto l’Ermada per la conquista dell’Istria, e il console Gaio Sempronio Tuditano, dopo aver domato i Giapidi e i Taurisci e ricacciato tra le montagne i Carni, offerse in memoria del trionfo celebrato a Roma per la fulminea vittoria il bottino di guerra al nume del Timavo e ne restituì il culto, affidandolo a un collegio sacerdotale di magistri. Autore della lapide dedicatoria in versi saturnii, che si conserva nel Museo di Aquileia, è probabilmente lo stesso Tuditano, conosciuto anche nel mondo delle lettere come storiografo.
Il Timavo, lo dice il vocabolo preromano, è un antichissimo nume fluviale indigeno, confuso poi per influenze greche d’oltremare con l’eroe tracio Diomede, domatore di cavalli: ancora ai giorni nostri si usava tenere a S. Giovanni del Timavo la fiera dei famosi equini dell’allevamento dei Duinati, che, come quelli della razza lipizzana del Carso, si facevano discendere dalle mitiche mandrie diomedee.
Un altro mito antichissimo, il passaggio degli Argonauti, adombra poeticamente l’importanza commerciale delle strade che congiungevano il nostro golfo con le vie acquee del Danubio e dei suoi affluenti, mito che dai geografi greci fu frainteso e condusse alla strana concezione di un duplice corso dell’Istro-Danubio, di cui il Timavo era creduto un ramo.
Il fenomeno sorprendente del fiume Timavo che sgorgando con polle abbondanti dall’alto delle rocce si gettava con immenso fragore nel mare, sì da parere non foce ma sorgente, diede origine al culto primordiale, culto che visse attraverso i secoli e si trasformò poi in quello del Santo Battista.
Il caso si ripeté in un’altra località del suburbio tergestino, a San Giovanni o S.Pelagio di Guardiella, dove le acque dello stesso Timavo sotterraneo, che ivi filtrano attraverso la rupe, furono raccolte dai Romani e condotte in città, mentre per un secondo acquedotto tergestino i Romani si servirono della Fonte Oppia nel villaggio di Bagnoli in Val Rosandra, il quale ha pure la sua chiesa intitolata a San Giovanni.
(continua)
Nella foto di copertina, opera di Elena Clausero, la riproduzione dell’aretta del I secolo, proveniente dal Castello di Duino ma originariamente posta a breve distanza da una delle bocche da cui il fiume Timavo erompe dal suo percorso ipogeo, recante l’iscrizione dedicatoria al culto fluviale del Timavo [Temavo /voto/[suscep]to/…], il cui originale qui sotto osservabile è conservato presso il Museo d’Antichità J.J. Winckelmann di Trieste.
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